Causa pessime previsioni del
tempo (era previsto “big snow”, ma alle
fine c’era solo una normalissima nevicata) questa volta ci siamo incontrati con
una settimana di ritardo, cioè: il primo mercoledì di febbraio invece
dell’ultimo di gennaio.
Libro della serata e secondo del
nostro ciclo indiano era L’interprete dei
malanni di Jhumpa Lahiri. Con questa sua opera prima la
giovane autrice si è, nel 2000, subito aggiudicato il prestigioso Premio
Pulitzer. Grandi erano quindi le nostre aspettative, ma solo in parte sono
state soddisfatte; anche se il giudizio generale del GDL era molto più positivo
rispetto a Cuccette per signora (di
Anita Nair) di cui avevamo discusso a fine novembre.
Il libro della Lahiri è una
raccolta di nove racconti, ambientati in parte negli USA e in parte in India
(Calcutta). I protagonisti quasi sempre sono indiani più o meno americanizzati,
storie di emigrazione, tra povertà, emarginazione, nostalgia, grandi aspettative e voglia di integrarsi.
Disagio temporaneo, ambientato a Boston, racconta di una giovane
coppia indiana in piena crisi matrimoniale dopo aver perso un figlio. È una storia molto intimista ma anche
abbastanza occidentalizzata. (A questo
proposito ad alcuni partecipanti del nostro GDL è venuto il “dubbio” che gli
autori indiani che riescono ad avere successo internazionale vivono e/o
studiano e/o lavorano quasi tutti in occidente, soprattutto in Inghilterra e
negli USA.)
L'interprete dei malanni , che ha dato il titolo al libro, è invece uno
dei pochi racconti che sono ambientati in India, dove una famiglia
americanizzata si reca in vacanza e viene guidata dal signor Kapasi, che svolge
l’attività di interprete nell’accompagnare i turisti. Come secondo lavoro fa il
mediatore linguistico in uno studio medico, perché oltre all’inglese in India
persistono 22 lingue ufficialmente riconosciute e non è facile comunicare tra
gli stessi indiani. Kapasi ritiene umiliante questo lavoro ed è ben felice del
fatto che la “turista americana” prova interesse per la sua strana
professione.
Il terzo e ultimo continente era forse il racconto che ha emozionato di
più i partecipanti del nostro Gruppo di lettura. Parla di un giovane bangalese
che negli anni ’60 lascia l’India per andare a studiare e lavorare a Londra e
dopo qualche anno a Boston negli USA. Lì affitta una stanza da una donna americana di 103 anni. L’anziana è talmente
fiera che gli americani siano sbarcati sulla luna che tutte le sere con
lei diventa un rito ricordare questo evento e gridare "Fantastico!"
La permanenza in questa casa finisce quando Mala, giovane indiana che lui ha
sposato in un matrimonio “combinato” dalla sua famiglia, riesce finalmente ad
avere il visto e a raggiungerlo a Boston. Il narratore cerca di farci capire
come da un matrimonio organizzato e quindi da una condizione di indifferenza
possa nascere un rapporto d’amore dolce e solido. Poi, con un salto in avanti
di molti anni, ritroviamo la coppia quando c’è già un figlio adulto che studia
ad Harvard. ”Mala non si avvolge più il sari sulla testa, la notte non
piange più per i suoi genitori, ma qualche volta piange per nostro figlio.
Allora andiamo a trovarlo … lo portiamo a casa per il fine settimana, a
mangiare riso con le mani insieme a noi, a parlare bengali, perché ci viene il
timore che smetterà di farlo dopo la nostra morte …”
Questo racconto ha una forte componente autobiografica. La stessa
Jhumpa Lahiri è nata a Londra da
genitori indiani bengalesi, ma è cresciuta nel Rhode Island. E in un’intervista su La Repubbica sottolinea
che spesso i genitori (indiani emigrati)
fanno di tutto per trasmettere ai loro figli il famoso “sogno americano”
rischiando però di creare una specie di alieni che sono stranieri in entrambi i
mondi. Della sua infanzia dice: "I miei non parlavano mai
dell’India, mia madre magari un po’ e in modo superficiale. Forse perché gli
immigrati hanno questo desiderio di tagliare le radici. Così l’India per me era
come la luna. Come io stessa ho sperimentato, ci vogliono tre
generazioni per integrarsi. La prima, quella dei miei non parlava bene la
lingua e ogni volta che apriva bocca scatenava una reazione tipo "voi
siete diversi", la seconda, la mia, era divisa tra amici, musica e cibo
bengalesi e vita americana, e la terza, che non ha più legami col passato. I
miei figli non parlano né bengalese né spagnolo e mangiano indifferentemente
curry, riso e fagioli, pasta. Ma si sentono al cento per cento di Brooklyn. E
questo è positivo? Non lo so. I miei sapevano sempre chi erano e quale era il
loro posto nel mondo. Io ho provato smarrimento e confusione dall'inizio
alla fine e l'appartenenza solo alle persone.”
“La letteratura indiana mi sembra
piena di tristezza” diceva una delle partecipanti al nostro incontro in biblioteca.
E quasi tutti i presenti confermavano questa sensazione.
Per rasserenarci ed addolcirci la
serata invece ci ha pensato Claudia con la sua ottima torta di mele fatta in
casa. Ed anche il tè caldo è stato molto gradito in quella serata piovosa e
fredda…
Prossimo incontro: mercoledì 26
febbraio per parlare di “Animal” di Sinha Indra.
Buona lettura a tutti!
(Helga per il Gruppo di lettura)