Il romanzo di febbraio, Ogni mattina a Jenin di Susan
Abulhawa, è senz’altro quel che si dice, un po’ grossolanamente, “un pezzo da
novanta”.
Attingendo anche alle proprie esperienze, l’autrice narra le
vicende di una famiglia palestinese dal secondo dopoguerra ad oggi, dalla prima
occupazione israeliana all’emigrazione negli Stati Uniti.
Intenso, umano, struggente, straziante, scritto con
semplicità e sapienza letteraria, questo romanzo si è lasciato assaporare
lentamente, dando voce ad un punto di vista – rispetto alla questione
israelo-palestinese – se non certo inedito, in qualche modo spesso trascurato.
Per me personalmente, è stato uno squarcio nel velo dell’ignoranza.
Ogni mattina a Jenin non risparmia al lettore nessuna delle
crudeltà che l’uomo può perpetrare sull’uomo, trasforma quelli che solitamente
sono numeri e dati nelle notizie di politica estera in persone e nelle loro
vite dilaniate. Eppure in Amal, protagonista e a tratti voce narrante, c’è
disperazione, c’è un dolore senza fine, c’è rabbia e gelo e durezza, ma mai
odio per i propri carnefici.
E’ stato bellissimo condividere una lettura capace di dare i
brividi, scambiandoci spunti di riflessione che spaziano dalla bellezza della
scrittura, all’intensità emotiva, alle considerazioni su quanto di terribile
possa esserci nell’uomo in branco - su come la vittima possa farsi carnefice –
e quanto di puro possa conservarsi in un individuo.
Consigliatissimo, a tutti, tutti, tutti.
(Claudia per il Gruppo
di Lettura)
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